Autoritratto col fratello, dipinto, Tominz Giuseppe, XIX

Oggetto
dipinto
Soggetto
ritratto di gruppo: Giuseppe e Francesco Tominz
Autore
Tominz Giuseppe (1790/ 1866)
Cronologia
1812 ca. - 1815 ca.
Misure
cm - altezza 168, larghezza 159
Codice scheda
OA_22070
Collocazione
Gorizia (GO)
Palazzo Attems Petzenstein
Musei Provinciali. Pinacoteca
Iscrizioni

retro, sulla tela: Restauriert in Jahre 1896 / von Florian Galber / accad. Maler in Wien / Urban 1966

Doppio ritratto di due uomini. Il primo, Giuseppe Tominz, è seduto su una sedia e tiene il fratello, Francesco Tominz, sulle sue ginocchia. Giuseppe Tominz indossa una drappo rosso vivo, una tunica bianca e un fazzoletto variopinto legato al collo. Nella mano destra stringe la tavolozza per i colori e dei pennelli. Francesco Tominz porta un paio di pantaloni neri, una redingot attillata color blu scuro, con una doppia riga di bottoni dorati e il collo in velluto nero. Alla catena dell'orologio, che fuoriesce dalla giacca, sono appesi piccoli attrezzi per la pulizia della pipa. Porta una camicia e una cravatta bianca. All'orecchio destro un orecchino. In mano tiene un foulard e il giunzaglio a cui sono legati due cani da caccia. Sul lato sinistro un tavolino con sopra appoggiato un orologio fermo alle quattro e cinque minuti. Alle loro spalle il basamento di una colonna a cui si appoggia un drappo verde. Alla loro destra una statua della "Concordia" su cui si stanno arrampicando un ramarro e una lumaca. Nello sfondo una veduta della città di Gorizia.

Il 22 gennaio 1919 Alfredo Tominz (1854-1936), inviava ad Ugo Ojetti una nota biografica sul nonno paterno che fino alla mostra goriziana del 1966 costituì la principale fonte sulla vita di Giuseppe Tominz. Ojetti, infatti, aveva richiesto notizie sull'artista goriziano dopo aver apprezzato la qualità della tela qui esaminata che durante la guerra aveva provveduto a mettere in salvo con le opere più importanti dei musei goriziani. Scriveva Alfredo Tominz: «II ritratto da Ella felicemente salvato dovrebbe essere stato dipinto intorno al 1830 (già esposto alla mostra goriziana del 1887). Questo rappresenta lui stesso e suo fratello Francesco [...] pel quale venne eseguito detto quadro, il quale ricordo era sempre nella sua Villa di Prebacina vicino Gorizia - fino a tanto che questa venne venduta al Conte Coronini unitamente a questo dipinto che fu in seguito per incarico del Conte stesso sistemato a Vienna - e donato da lui al Museo provinciale di Gorizia». Nessuno diede particolare importanza all'opera, tanto che, in occasione della Prima esposizione artistica goriziana apertasi a palazzo Attems nell'ottobre del 1887, Luigi Carlo Ippaviz, assegnava erroneamente la tela ad Augusto Tominz, figlio di Giuseppe. L'attribuzione fu corretta da Enrico Maionica, che registrando il dipinto, donato nel 1896 dal conte Coronini, nell'Inventario supplettorio del Museo lo restituiva a Giuseppe stimandolo ottocento fiorini. Nel 1934, in concomitanza alla mostra Ritratto dell'Ottocento nell'ambito della Biennale di Venezia, Silvio Benco dedicava all'opera un commento critico pubblicato su "Fan" che costituisce il primo studio monografico su Tominz: «Ritratto generoso, fiammeggiante di giovanile baldanza, superbamente amplificato intorno alle figure che vi hanno un rilievo una forza di carattere una linea da potersi dire la continuazione plastica di quei limpidi sguardi che paiono, tanto son giovani, da padroni del mondo». Il critico datava l'opera al 1820 circa, facendola coincidere con il ritorno dell'artista a Gorizia e ponendola come pietra miliare degli inizi della sua carriera pittorica, poiché «tutto il lungo periodo romano del Tominz è una specie di profondo Medioevo: molta oscurità e poche opere». Remigio Marini (1952), concordando su una datazione attorno al 1920, metteva in luce le caratteristiche più genuine ed apparentemente contraddittorie caratterizzanti il linguaggio tominziano: «L'Autoritratto è nato a Gorizia; tuttavia, malgrado il panorama della città natale nel fondo, non c'è dipinto tominziano che respiri aria più romana di questo». Marini continuava: «Sentiamo che qui si spira aria di Roma; ma nella Roma contemporanea al pittore non sapremmo a chi avvicinarlo [...] Il fatto è che in questo dipinto Tominz poco si serve del lessico del tempo [...]. La lingua di questo dipinto è carica di anacronismi, è vero: ma l'artista ha saputo rifarla viva e sua». Non si discostava dalla linea tracciata da Benco e Marini, Guglielmo Coronini che, nel catalogo della mostra goriziana del 1966, proclamava il primato del dipinto ribadendone la datazione agli inizi degli anni Venti: «Tominz si affaccia per noi all'arte con un'opera così originale e matura da rimanere per sempre la sua insegna, il suo capolavoro più significativo». Lo studioso rilevava che «l'atmosfera romana, dominata da Pompeo Baioni e da Antonio Raffaello Mengs [...] è evidente, ma la realizzazione di questo ritratto idealistico, classicheggiante nell'impostazione, ma tanto meno neo-classico e disegnativo di molti quadri tominziani successivi, brioso, anzi, e morbido nella materia pittorica, squillante e sonoro nel colore, è già tanto personale e coerente da sfidare ogni più attenta analisi delle sue componenti e derivazioni». Nel 1969 Ksenija Rozman offriva un importante e documentato contributo alla conoscenza dell'attività giovanile di Tominz nell'articolo pubblicato su "Sreàanja” e in successivi interventi. Le ricerche sue consentivano di precisare che Tominz, giunto a Roma alla fine di marzo del 1809, frequentò per nove anni la scuola di Domenico Conti Bazzani, pittore mantovano cui l'artista goriziano era stato raccomandato dall'arciduchessa Marianna d'Austria, sorella dell'imperatore Francesco I. Gli insegnamenti del maestro avvicinarono Giuseppe Tominz al linguaggio classicheggiarne di Batoni, Mengs e Lampi, ma altrettanto importante per la sua formazione fu la frequentazione della Scuola di Nudo annessa all'Accademia di San Luca, dove nel 1814 vinse il secondo premio con uno Studio di Apostolo. Notevole fu anche l'influenza dell'ambiente artistico tornano che offrì al giovane pittore l'occasione di entrare in contatto con i circoli dei Nazareni e dei Puristi, e forse con lo stesso Ingres. In seguito alla morte di Conti Bazzani, avvenuta nel 1818, Tominz decise di rientrare a Gorizia. La puntuale ricostruzione dell'attività giovanile di Tominz portava Ksenija Rozman ad anticipare di due anni l'esecuzione dell'Autoritratto con il fratello, poiché la studiosa manteneva come punto fermo il fatto che il dipinto fosse stato eseguito dopo il rientro a Gorizia. Solo nel 1995 Fabrizio Magani notava che la collocazione dell’opera alla fine del secondo decennio strideva con l'aspetto dei due Tominz che «sembrano assai più giovani rispetto ai trent'anni ipotizzati stando alla più tarda cronologia proposta e l'esecuzione va quindi arretrata al 1812-1815, notando anche la mancanza dell'anello nuziale sulla destra, che il pittore esibisce invece nel più tardo Autoritratto del Museo Revoltella di Trieste». Magani giungeva a questa conclusione dopo aver osservato che «il quadro, gremito di memorie e citazioni che rimandano ai modelli di Batoni e Lampi [...], comporta una sintesi figurata degli anni da lui trascorsi a Roma. Egli si ritrae in un eccentrico paludamento all'antica [...] esibendo tavolozza e pennelli con intensa partecipazione al senso profondo dell'amicizia seguendo in questo uno schema ritrattistico molto praticato in ambito neoclassico e nel clima "nostalgico" dell'ambiente nazareno». L'atmosfera nazarena, leggibile anche nella densa simbologia del dipinto - la statua a destra raffigurante probabilmente la Concordia, il ramarro e la chiocciola sul basamento della statua, rispettivamente interpretabili come simboli della protezione e della pace, l'orologio sormontato dalla scultura della Fama con la sua squillante tromba - va però inteso più in termini contenutistici che di resa formale. L'ispirazione neoquattrocentesca del doppio ritratto che traduce in termini profani il tema della Sacra conversazione stempera, infatti, l'algido purismo classicista sciogliendolo nel fresco realismo dei volti, nel colore sonoro, squillante e decisamente prevalente sul disegno. Tominz è autore del concreto e in questo doppio ritratto la sua carica realistica veniva acutamente rilevata da Renato Barilli (1999) che descriveva i due protagonisti del dipinto «fieri della posizione assiale, congiunti fra loro come se fossero gemelli, provvisti quasi di un corpo solo, bicefalo al modo dell'aquila asburgica; anche se, al di là della collocazione spaziale, il pittore si affretta ad assegnare a ciascuno dei due caratterizzazioni psicologiche e d'abbigliamento nettamente distinte, prendendo per sé quanto gli apparteneva nella realtà, e cioè un volto provocante, sguaiato, con qualcosa di ostentatamente bohémien, quasi che volesse porsi fuori dei confini dell'onorabilità borghese, come dimostrano quei capelli a ciocche inanellate, e lo sgargiante fazzoletto zingaresco al collo; laddove Francesco ci appare più compassato e severo. Ma ciò non toglie che la regia sia unitaria e di ferro. C'è perfino un drappo di sapore quasi lottesco che si stende dietro i due a onorarli, a esaltarli». (DELNERI 2007, pp. 102-104)

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