Nota anche con altri nome (Caverna presso Gabrovizza, Grotta degli Orsi), la grotta dell’Orso è una cavità nota e molto frequentata, per via della sua facile accessibilità. Si trova nel comune di Sgonico, su un lato di una dolina pianeggiante. L’ingresso è un’ ampia apertura ad arco, alta 10 metri e larga 25, esposto a nord e posto a quota 245 s.l.m. Il vestibolo, che non presenta problemi di accesso, conduce ad una larga galleria, lunga ben 235 metri, che dopo un primo tratto in leggera discesa, compie una svolta quasi ad angolo retto. La grotta fu scoperta da Carlo Marchesetti mentre era nella zona di Gabrovizza per le sue ricerche botaniche; già nel 1884 vi aveva trovato un dente ed una mascella di Ursus Spelaeus (da cui prese il nome la cavità). Forse già Karl Moser l’aveva visitata e continuò a tornarvi sino al 1886, quando vi compì un primo scavo intensivo. Marchesetti iniziò dei veri e propri scavi sistematici nell’anno successivo, nel vestibolo, e li proseguì per alcuni anni, durante i quali scavò una superficie di 108 mq. Già allora segnalava che, dopo un breve strato di terra trasportata dall’esterno, era presente un poderoso strato di cenere e carboni. Pur non documentando puntualmente la posizione dei numerosi resti ceramici, gli appunti di Marchesetti sono comunque piuttosto precisi, tanto che lo studioso distinse 230 vasi, dei quali 103 di grandi dimensioni, 71 di medie e 57 di piccole. Dalle analisi delle faune, Marchesetti concluse che l’uomo occupava solo la parte anteriore della grotta, dove non erano presenti tracce di Ursus Spelaeus. Queste analisi gli permisero, inoltre, di ipotizzare che gli antichi abitanti della cavità consumassero soprattutto carne di capra e pecora, con tutte le conseguenze economiche che una simile constatazione può implicare sulla vita di questi antichi abitatori (MARCHESETTI 1890). Nel caso dell’industria litica, lo studioso elencava 160 manufatti in pietra scheggiata, 2 asce-accette in pietra levigata e numerose coti e lisciatoi: pochi di questi sono ancora conservati, ma fra questi le lame-raschiatoio di grandi dimensioni possono rientrare nella produzione litica del Neolitico, confermando le tesi di Marchesetti. Allo stesso periodo o nell’Eneolitico si possono datare le due asce e la punta foliata. In mancanza di informazioni stratigrafiche, i pochi reperti ceramici studiati sinora, su pura base tipologica, confermano la presenza di ceramica del Gruppo dei Vasi a Coppa e di alcune forme ad essa associate, come il piatto carenato e le grandi scodelle carenate. Sempre neolitici, ma forse più tardi, sono frammenti confrontabili con materiali della Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata. I recipienti profondi a pareti rientranti con impressioni sull’orlo e sotto l’orlo, i frammenti con superfici trattate a Besenstrich sono tutti elementi attribuibili al tardo Neolitico- Eneolitico, in qualche caso sino al Bronzo antico, in area nord-italiana e slovena. Le prese a segmento di cordone impresso trovano validi confronti nell’ambito della Cultura di Lubiana. Le anse a nastro a profilo angolare sarebbero inquadrabili nel Bronzo antico, forse come varianti locali di manufatti della Cultura di Polada (Montagnari 1997). Frammenti ceramici attribuibili all’età del Bronzo e del Ferro sono notevolmente inferiori a quelli delle epoche precedenti, fatto che confermerebbe una tendenza generale in ambiente carsico. I materiali risultano comunque tipici di questa fase, comunemente in uso fra le popolazioni che vivevano nei castellieri dell’area. Si tratta di ceramica di uso comune, d’impasto grossolano, poco decorata, dagli scodelloni confrontabili con tipi dell’età del Bronzo recente, alle olle ad orlo everso e spalla arrotondata, tipiche delle fasi finali del Bronzo e del primo Ferro. Di complesso inquadramento, ma originariamente inseriti nel Bronzo recente, sono i cosiddetti bicchierini troncoconici, la cui funzione non è stata ancora chiarita. Sappiamo che anche E. Neumann scavò nella grotta, come riportato da R. Battaglia, che la visitò a più riprese sino al 1919, con pochi risultati (una fusaiola biconica, un frammento di fondo di vaso decorato, un cranio di cane) (BETIC 2013). Scavi sistematici furono da lui eseguiti alcuni anni più tardi per conto dell’Università di Padova: fra i materiali conservati, la maggior parte è da attribuirsi agli scavi Neumann, come il canino di orso forato e alcuni oggetti in metallo (una punta di spillone o ago in bronzo, genericamente protostorica, e una punta di lancia o giavellotto, forse romana), mentre i materiali ceramici non sono riconducibili ad orizzonti precisi, se si esclude una parete con presa a impressioni digitali, che trova riscontro nella grotta Cotariova, i cui materiali si possono per lo più inquadrare tra il tardo Neolitico e il Bronzo antico. Gli ultimi scavi qui effettuati, negli anni 1950-1951, furono condotti da M. Jurca e F. Legnani della Società Alpina delle Giulie: in quella occasione fu rinvenuto uno strumento in pietra scheggiata, che allo stato attuale sembra essere l’unico indizio di una frequentazione nel Paleolitico medio.
I materiali di questa grotta ad oggi risultano essere quasi del tutto inediti, il che rende difficile avanzare interpretazioni. I pochi materiali della mostra "Uomini e Orsi" del 1997, unici sinora pubblicati, aiutano parzialmente a chiarire alcuni aspetti. Per quanto riguarda la ceramica neolitica del Gruppo dei Vasi a Coppa, il confronto indicato è sempre con la Cultura di Danilo della Dalmazia centrale. Altri confronti, che del resto trovano conferme in diverse grotte, sono tipologicamente ricollegabili a ambienti culturali e geografici differenti, come ad esempio alcune culture dell’Italia settentrionale e centrale. Ancora ad est, verso le culture del tardo Neolitico come Hvar (probabile confronto per alcuni elementi dipinti pubblicati da Marchesetti), coeve o più tarde come Lasinja e poi Lubiana nel pieno Eneolitico, si orientano i confronti per alcuni materiali, purtroppo ancora inediti. I dati di Marchesetti sull’utilizzo di questa grotta si aggiungono agli studi recenti, che stanno mettendo in evidenza la possibilità che, almeno dal tardo Neolitico sino al Bronzo antico, la frequentazione delle cavità del Carso fosse per lo più un fatto occasionale, legato agli spostamenti di gruppi di pastori che non avevano qui una sede stabile. Diversi dati confermerebbero come le grotte venissero usate per la stabulazione degli animali, cosa che potrebbe, per il carattere semi-nomade degli spostamenti pastorali, anche aiutare a spiegare alcuni elementi spesso più afferenti ad aree lontane dal Carso. Difficile, per venire ad epoche più recenti, è individuare le modalità della frequentazione delle grotte in epoca protostorica, punto che si inserisce nella complessa problematica del rapporto tra grotte e castellieri. L'esiguità dei materiali riconducibili a questo periodo porta a ritenere che delle grotte venisse fatto un uso discontinuo, episodico.
Calligaris R./ Mizzan S./ Montagnari Kokelj E., Uomini e orsi, Trieste 1997
Jurca M./ Legnani F., La grotta dell'Orsodi Gabrovizza n. 7 VG nel Carso triestino. Stazione preistorica. Relazione degli scavi eseguiti nel 1950-1951, in Alpi Giulie, Trieste 1953, n.52
Battaglia R., Le caverne ossifere pleistoceniche della Venezia Giulia,I.N.7. La grotta dell'Orso di Gabrovizza, in Alpi Giulie, Roma 1920, XXII, n. 5-6
Marchesetti C., La caverna di Gabrovizza presso Trieste, in Atti del Museo Civico di storia naturale di Trieste, Trieste 1890, 8