In località "i Pizzughi" (Picugi) sorgono i resti di tre abitati fortificati d’altura protostorici con relative aree funerarie, dislocati sulla sommità, lungo i fianchi e ai piedi di tre colline ravvicinate tra loro. Le alture, dal profilo tondeggiante e dai contorni regolari, presentano una fitta serie di terrazzamenti (in parte alterati da interventi moderni di estrazione della pietra) che, sfruttando gli affioramenti naturali di depositi calcarei, delimitavano zone pianeggianti, adibite a spazi abitativi. Il sito fu segnalato nella seconda metà dell’800 negli studi sui castellieri di Carlo de Franceschi e Richard Francis Burton, ma solo nel 1883 il naturalista Carlo de’ Marchesetti, direttore del Civico Museo di Storia Naturale di Trieste, vi organizzò alcune ricognizioni di superficie, durante le quali constatò il buono stato di conservazione delle tre cinte difensive (una delle quali con triplice cerchia muraria) e rinvenne all’interno di uno degli abitati i resti di un focolare con vasellame da cucina e ossa animali combuste. L'esito positivo di queste ricerche spinse il vicepresidente della Giunta Provinciale dell’Istria, Andrea Amoroso, grazie anche ai consigli di Luigi Pigorini, a intraprendervi i primi scavi regolari, a partire dall’autunno dello stesso anno. Le indagini proseguirono discontinuativamente nei sei anni successivi e in modo non del tutto estensivo (a causa della presenza di vigneti) ai piedi del primo e del secondo castelliere, sul lato occidentale, dove riemersero tratti di due ampie necropoli (ca. 2 ha ciascuna), forse relative a un unico complesso funerario, con oltre 500 tombe a cremazione della piena età del Ferro. I numerosi reperti – cinerari e corredi - che andavano tornando in luce furono oggetto di uno studio critico di Paolo Orsi (Orsi 1885), il quale sottolineava le analogie tra gli ossuari situliformi a fasce bicrome dipinte (VI sec.) con quelli delle necropoli atestine, a conferma di rapporti – più o meno mediati- tra il litorale istriano e i centri veneti, e riconosceva la provenienza dalla Daunia di alcuni crateri (fine VII – metà VI sec.), evidentemente legati a una committenza di status più elevato. L’esito generale degli scavi fu poi documentato in una pubblicazione monografica dello stesso Amoroso (1889), che descrisse le tombe più significative, posizionandole in una planimetria, e elencò tutti i reperti, registrando una frequentazione del sito ancora in età romana e tardoromana (si ritrovò una tomba di I sec. d.C. e tre inumazioni tardoromane), circostanza confermata dai numerosi frammenti di anfore romane tuttora giacenti presso il muro a secco della cinta esterna del secondo castelliere. Nello stesso periodo raccoglieva reperti in modo autonomo anche Giuseppe de’ Vergottini, socio della Società istriana di Archeologia e Storia Patria e proprietario di fondi ai piedi dei castellieri; questi, fra l’altro, nel 1887 commissionò uno scavo ai piedi del terzo castelliere, dove forse sorgeva un’ulteriore necropoli. Nei primi anni del ‘900 il Marchesetti rivolse nuovamente e in modo più approfondito i propri interessi paletnologici al sito di Pizzughi: tra il 1904 e 1906, 1908-1909 e 1913, perlustrò dapprima la parte centrale del secondo e del terzo castelliere, concentrandosi poi in un’area di ca. 30 metri nella sella tra le due alture, dove insisteva un’ampia necropoli, definita come “la parte più arcaica” e per lo più attribuita nella letteratura successiva al castelliere mediano. In realtà, anche per la mancanza di una planimetria di questi scavi, probabilmente perduta, resta impossibile stabilire se questo settore avesse un legame con l’area scavata dall’Amoroso ai piedi del colle centrale o se si trattasse di un sito indipendente, eventualmente pertinente al terzo castelliere. Nel complesso, Marchesetti scoprì circa 250 tombe e tre focolari lunghi 3-4 metri, forse relativi all’ustrinum del cimitero. Inoltre, sul pendio della cerchia esterna del secondo castelliere individuò un settore funerario delimitato da un recinto e inquadrato nella tipologia del “familien-Sepulkretum”. La documentazione di questi lavori si esaurisce in alcune brevi comunicazioni annuali e, soprattutto, nei taccuini di scavo del Marchesetti, contenenti elenchi incompleti di materiali, illustrati da schizzi, che permettono soprattutto di ricostruire le tipologie delle sepolture e il contenuto delle varie tombe, senza fornire indicazioni sulla topografia del sito indagato.Tuttavia, grazie a una recentissima generale revisione degli scavi Marchesetti in corso da parte di A. Betic (Betic 2003; 2005a; 2005b), accompagnata da una classificazione dei materiali rinvenuti, si dispone ora di una visione piuttosto completa della necropoli esplorata agli inizi del ‘900, visione che coincide sostanzialmente con quella fornita dall’Amoroso per le altre aree. Per le strutture dei tre castellieri, invece, le conoscenze rimangono a tutt’oggi limitate alle sole evidenze strutturali. Sulla base degli appunti del Marchesetti, le sepolture da lui indagate possono essere ricondotte a quattro tipi: 1) deposizione del cinerario e del corredo entro una grande cista delimitata da muretti a secco o da pietre slegate fra loro (5%); 2) deposizione del vaso cinerario entro una “cassetta” formata da lastre di sfaldatura calcarea (9%); 3) deposizione del vaso cinerario e dell’eventuale corredo entro una fossa, con o senza lastra di copertura (76%, con netta prevalenza di tombe con copertura); 4) deposizione delle ceneri direttamente entro una fossa, con o senza lastra di copertura, eventualmente associate a qualche oggetto di corredo (10%). I materiali recuperati dal Marchesetti consistono di ca.200 cinerari in ceramica d'impasto, e di due soli esemplari in bronzo; quanto alle forme, ricorrono olle, orioli, anfore, kothones, vasi situliformi. Pochi gli oggetti d'ornamento personale, in bronzo (armille, orecchini, anelli, cinturoni a lamina incisa, pendagli, spilloni), come anche sono documentati rari corredi di armi (spade e elmi). I recenti studi hanno evidenziato che non è possibile stabilire “tout court” una corrispondenza cronologica tra le diverse tipologie sepolcrali e le fasi di utilizzo della necropoli, o anche tra tipologie sepolcrali e grado di ricchezza delle inumazioni (Betic 2005a). Il rito funebre adottato nelle necropoli di Pizzughi è quello esclusivo dell’incinerazione; nella testimonianza del Marchesetti, i resti umani si presentavano semicombusti, così come anche gli oggetti indossati dai defunti mostravano di aver subìto un processo di incinerazione solo parziale. In base all’analisi dei contesti e dei materiali, si può ritenere che la necropoli, già in uso nell’età del Bronzo finale, epoca alla quale si datano pochi reperti, raggiungesse la piena espansione durante la prima età del Ferro, per poi cessare la propria attività durante l’età del Ferro evoluta. La prima fase (XI-X sec.) è rappresentata soprattutto da prodotti “locali”, come cinerari in ceramica “dei castellieri”, o oggetti d’ornamento quali armille a doppio spiovente e a nastro costolate, ma non mancano esemplari che testimoniano contatti, diretti o indiretti, con manifatture del medio e alto-Adriatico occidentale. La fase successiva (IX-VIII sec.) è caratterizzata ancora da produzioni caratteristiche della cultura istriana (orcioli monoansati con spalla rigonfia e decorazione a incisione o falsa cordicella, olle a oro rientrante decorate con cordoni plastici, armille a nastro e cinture a lamine bronze decorate), a cui si accostano numerosi oggetti di ambito atestino, hallstattiano, villanoviano, piceno. Questa apertura ai traffici adriatici si manifesta ancora negli ultimi secoli di vita della necropoli (VII-VI sec.), ma con testimonianze materiali numericamente meno rilevanti. Al proposito vanno ancora ricordati i vasi dauni scoperti dall’Amoroso, giunti in Istria forse attraverso gli scali commerciali dalmati.
Le necropoli protostoriche dei Pizzughi, delle quali non si conoscono con precisione i limiti e l'estensione, si ascrivono al cd. "gruppo culturale istriano" (cui appartengono, ad es., i siti di Vermo, Limska Gradina, Pola, Nesazio...) sia per quanto attiene alle tipologie delle tombe che per i materiali associati alle sepolture; similmente, l'uso esclusivo dell'incinerazione rispecchia pienamente la facies funeraria istriana, caratteristica anche di tutto l'arco alpino orientale durante la prima età del Ferro. Tuttavia, se da una parte la cultura autoctona appare molto spiccata (come testimoniato soprattutto dalla ceramica di produzione locale), dall'altra sono cospicue le testimonianze di progressivi contatti dell'area parentina con le cerchie centro europee e balcaniche, e soprattutto con l'Italia settentrionale e padana (prodotti di area veneta, villanoviana e picena), a riprova dell'importante ruolo di crocevia culturale e commerciale svolto dal Caput Adriae - e in particolare della penisola istriana - quale ponte naturale tra le due sponde adriatiche, a partire dall'età del Bronzo finale.
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Carlo Marchesetti e i castellieri, 1903-2003 (Atti del Convegno internazionale di studi, - Duino (Trieste), 14-15 novembre 2003), Trieste 2005
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