Considerato “ai vertici della produzione pittorica tardogotica in Friuli”, il ciclo di San Vito si caratterizza per l’altissima qualità pittorica e l’eccezionalità iconografica che lo rendono un unicum nell’ampio scenario della pittura tardogotica e protorinascimentale. Ciò che rimane dell’estesa decorazione è rappresentato da pochi frammenti staccati, molto deteriorati e oramai di difficile lettura. Enrica Cozzi (1987) ha ripercorso le vicende delle pitture individuandone iconografia, committenza e contesto stilistico. La riscoperta degli affreschi è avvenuta in modo fortuito alle metà del Novecento, durante i lavori di ristrutturazione di uno stabile adiacente al presunto ex Palazzo Patriarcale di San Vito al Tagliamento, noto ai più come Castello. L’antico edificio del centro storico destinato a deposito di granaglie, subì pesanti restauri e demolizioni che ne alterarono profondamente l’aspetto originario. Virgilio Tramontin, ispettore onorario della Soprintendenza, per lo strappo degli affreschi interni si avvalse della competenza tecnica del pittore Federico De Rocco che lo portò a termine nel 1960. Già nel 1938 De Rocco aveva intuito la presenza delle pitture e aveva compiuto segretamente dei sondaggi sulle pareti. Possediamo alcuni appunti e schizzi che Tramontin realizzò poco prima dello strappo nei quali si legge: “20.3.60 Affreschi Castello II piano Antonini viene e fotografa alcuni particolari. Non è possibile l’assieme perché pareti e pavimenti sono ingombri di armature. I. foto - figure nel tondo e fregio alto a sinistra. (A) (disegnato figure e fregi in rosso e verde […] il fregio giallo interni fogliari) II. foto - id. di fronte con un particolare delle panche (Padre Eterno con aureola, e nimbato) (in questa posizione, si nota nel brano a sinistra una zona di figure sottostante (due intonaci) inoltre fra semibande tutto dipinto a fresco in una volta, il fregio appare di gusto più vecchio, trecentesco e il P. Eterno più tardo, ‘400, mentre lo sfondo a destra dello stesso, di nuvole azzurre schematizzate è ricond. fine ‘300. III. foto - id. di fronte (qualche testa ha gli occhi un po più rispettati che una nelli altri) IV. foto - Lacerto di testa con copricapo- naso e occhi- parte uniforme in alto (toni più chiari modellato più morbido e largo) (Le scritture sono sempre gotico, ma nei lacerti rinvenuti sotto alla parte (A) sono in volgare) V foto - Lacerti di testa- solo occhi (?) e scrittura alt. “Europa” 8 e parte di filattero. (D) (caratteri id.) VI foto- Id. filatteri “Triburtina (?) 7 parte di filattero (in corrispondenza di quest’ultime figure due mani […] (E) N.B. Nella parete a Nord, parte destra, cioè sotto alle ultime figure, si notano e si vedono bene le mani, e intravedono vesti e […]. Nella parete a sud, le figure sono state intraviste da Marchetot, oggi 20/3 non si distinguono”. Altri appunti datati 27 agosto 1966 contengono le misure di 24 pannelli strappati che il 1965 e il 1966 furono riportati su telaio da Gino Marchetot e collocati nella Torre Raimonda di San Vito assieme ad altri strappati più tardi all’esterno del palazzo da Renato Fioretti. Dodici dei lacerti staccati da Federico de Rocco sono stati donati nel corso degli anni ‘80 al Comune di San Vito dal figlio Paolo, quattro appartengono al piano nobile. Un breve scritto del 1978 di Maurizio Buora e Virgilio Tramontin rappresenta una prima catalogazione dei frammenti strappati in cui si dà conto delle misure e si propone una prima interpretazione iconografica seppur generica. Un presupposto fondamentale per lo studio e la comprensione degli affreschi in esame è un’intuizione di Enrica Cozzi, formulata in base ad alcune precisazioni di Paolo De Rocco sull’assetto urbanistico della città di San Vito. La sede originaria degli affreschi non è, come si è a lungo creduto, l’ex sede Patriarcale, ma un palazzo di proprietà della nobile famiglia Altan. Un dato quest’ultimo che apre uno scenario particolarmente affascinante, in grado di spiegare il soggetto e lo stile delle pitture. Lo stemma Altan compare in un frammento di affresco strappato all’esterno del palazzo e in una pettenella da soffitto oggi in collezione privata: uno scudo a forma di bucranio spaccato, nel I d’argento alla rosa rossa bottonata di giallo; nel II d’azzurro alle tre teste di leone d’oro; il tutto alla fascia d’oro attraversante sullo spaccato. Si tratta dell’arme gentilizia di Antonio II Altan, così composta in seguito alla concessione, nel 1434, di una rosa rossa, parte dello stemma familiare del principe Giordano Orsini, donata in segno di amicizia nei confronti del prelato friulano. Nel 1444, in seguito alla nunziatura di Antonio II Altan in Francia al servizio del papa Eugenio IV, lo stemma si arricchisce di un serpente d’oro e del motto Droit (giustizia). La complessa vicenda dello stemma Altan e delle variazioni da esso subite negli anni (cfr. Cozzi 1987 pp. 11-16), permette di individuare il committente e gli estremi cronologici della decorazione. Antonio II Altan nasce a San Vito alla fine del XIV secolo, il padre è Bianchino Altan, la madre una nobildonna dei conti di Porcia. Dopo gli studi di diritto all’università di Padova, nel 1431 è a Roma come cappellano papale e poco dopo è nominato uditore di Rota. Nel 1432 è inviato dal papa Eugenio IV come nunzio apostolico al concilio di Basilea. Nel 1434 riceve l’arcidiaconato aquileiese, l’anno dopo è impegnato in una nuova missione diplomatica per conto di papa Eugenio IV. Nel 1436 è nominato vescovo di Urbino e dal 1439 al 1443 risiede nella diocesi di Urbino. Nunzio in Francia dal 1443 al 1444, alla fine della missione ottiene dal re di Francia di aggiungere alla sua arma il serpente dorato il motto Droit. Nel 1447 il nuovo papa Niccolò V, lo incarica di portare a termine il processo di beatificazione di San Bernardino da Siena, che era stato ospite di casa Altan a San Vito. Antonio II Altan muore nel 1450 di ritorno da una missione a Barcellona. Come già accennato, nell’unica pettenella da soffitto conservatasi, compare lo stemma di Antonio Altan, corredato da una mitra vescovile. Il primo stemma, corredato dall’arme concessa dall’Orsini si trovava nella facciata esterna. Tenuto conto della nomina a vescovo di Urbino nel febbraio del 1436, tale data costituisce il termine post quem per la decorazione del soffitto ligneo e delle pareti delle sale. Il 1444, anno in cui lo stemma Altan si fregia dell’aquila d’oro e del motto Droit, costituisce invece un valido termine ante quem. A precisare la datazione degli affreschi del primo piano concorrono anche i ritratti dei due personaggi contemporanei che vi compaiono: Sigismondo e Giovanni VIII Paleologo. In definitiva, la datazione proposta per l’esecuzione degli affreschi è tra il 1439-40 e il 1443 (Cozzi 1987, pp. 36-42). Dal punto di vista stilistico, i dipinti sanvitesi evidenziano un livello culturale molto alto, del tutto estraneo al panorama friulano e veneto della prima metà del XV secolo. Enrica Cozzi vi ha individuato l’attività distinta di due maestri e di vari collaboratori. Al così detto Primo maestro di San Vito spetterebbe la decorazione del piano nobile, al Secondo Maestro di San Vito, le Sibille. Si tratta di due personalità formatesi all’inizio degli anni trenta del Quattrocento a Roma, nei cantieri di Pisanello e Masolino da Panicale, entrambi aggiornati su esperienze nordiche, memori della raffinatezza del gotico internazionale ma già proiettate verso la nuova tendenza protorinascimentale. Un Terzo maestro di estrazione friulana, forse aiutato da un giovane Dario da Pordenone, avrebbe eseguito, secondo uno schema ideato dai due maestri più colti, l’episodio con la ruota del martirio, le Figure allegoriche e le Virtù. Infine un’ultima personalità, forse lombarda, avrebbe lavorato alla decorazione esterna del palazzo.
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