Un basso muricciolo separa le figure, impostate su di un pavimento a scacchi bianchi e rossi, da un paesaggio ormai illeggibile. A sinistra compare di profilo l'Angelo annunziante, dai lunghi capelli biondi e dalle ali con penne multicolori, che alza la mano destra nel gesto della parola e reca un giglio nella sinistra; indossa un manto violaceo che gli si drappeggia sul fianco, lasciando vedere la veste bianca che forma sbuffo tra due sottili cinture, e porta ai piedi dei leggeri calzari. A destra è invece raffigurata di tre quarti la Vergine, che appare inginocchiata a capo lievemente chino, con le mani incrociate sul petto, davanti ad un leggio con sostegno centrale a forma di leone marciano su cui stanno aperti almeno due libri; sulla veste violacea (ma in origine azzurra) di Maria si allarga un ampio manto giallo che ricade in pieghe rigide fino a terra. Al vertice superiore della lunetta campeggia tra un vortice di nubi la figura barbata e canuta dell'Eterno Padre, che con il suo soffio sospinge in direzione di Maria il Bambino incarnato. Ai vertici laterali, compaiono due armi gentilizie: uno scudo trinciato bianco e giallo a destra ed uno scudo dai colori giallo, rosso, bianco a sinistra.
"In casa mia, nella ex cucina del castello di Torre di Pordenone, dalle pareti negre di fuliggine come, e peggio che nella famosa cucina descritta d al Nievo, ho scoperto un'Annunciazione attribuibile a Leonardo". Con queste parole Giuseppe di Ragogna iniziava il suo articolo sul Gazzettino Sera del 16 Novembre 1958; era l'annuncio ufficiale di un ritrovamento avvenuto già da tempo, ma condiviso solo con alcuni amici per un sorta di sfiducia o timore reverenziale nei confronti di quella "cultura ufficiale " che lo aveva irriso in occasione di precedenti scoperte archeologiche. L'affresco si trova nella ex chiesa interna del castello ed occupa uno dei lunettoni del coro. Proprio la zona absidale era stata adibita, nell'Otto cento, a cucina, cosicché il fumo era subentrato alle precedenti imbiancature nel ricoprire il dipinto (guastato anche dal passaggio delle milizie napoleoniche e dall'apertura di un finestrone nella parete sottostante). L'Annunciazione tornò alla luce nel dopoguerra sotto gli occhi amorevoli del proprietario del castello, che con la sua fantasiosa attribuzione dell'opera alla mano di Leonardo ebbe il merito di aprire all'interpretazione critica la strada del centro-Italia. Quanto evidenti apparirono da subito i legami dell'affresco con l'arte tosco-emiliana, tanto lampanti paiono peraltro i riferimenti alla maniera di Gianfrancesco, pure esplicitati solo in anni recenti (1986, p.79) da Ganzer: anzitutto la resa dell'Angelo, così vicino a quello di Forni di Sotto (stesso giglio nella mano, veste della medesima foggia e colore, diadema dorato adagiato sui riccioli biondi; quasi uguale il profilo del volto, tracciato con la consueta incisività, anche se a Torre, nel complesso, si rileva "un grafismo sottile, più affinato"); poi la Vergine, che si rifà chiaramente al prototipo che Gianfrancesco propone dall'Annunciazione e Nativi tà di San Nicolò di Comelico alle analoghe scene di Forni, Barbeano, Socchieve. Il viso ovale, da florida ragazza contadina, è reclinato in avanti, nell'atteggiamento di umile pudore che traspare dalle Madonne di Gianfrancesco; anche quando alzeranno lo sguardo verso lo spettatore (vedi la pala di Santa Giuliana, o la Madonna col Bambino di Prata) queste creature conserveranno negli occhi una affettuosa timidezza, progressivamente unita ad una maggiore pastosità cromatica e delicatezza di segno. Già qui a Torre troviamo "una maniera ad ogni modo più larga e pausata, me no tormentata e meno distratta da curiosità tardogotiche" (P. Goi, 1988, p . 509), un "equilibrio già rinascimentale" (G. Ganzer, cit.), che fa orientare la critica verso una concorde datazione alla fine del secolo. Non è quindi improbabile che il periodo "fra il gennaio e l'aprile del 1500", in cui di Ragogna voleva situare l'esecuzione dell'opera da parte di Leonardo, vedesse invece appena terminato il lavoro del maestro tolmezzino, che d'altronde sappiamo presente nel 1499 nella vicina Cordenons, dove si era impegnato a realizzare (insieme a Pietro da Vicenza) la decorazione parietale della cappella maggiore nella chiesa di Santa Maria. (continua in OSS pag. 5)
Goi P., Il Pulpito del Duomo di Udine ed i suoi autori, in Arte Veneta, Milano 1996, n. 49
Furlan C., Il Pordenone, Milano 1988