Tinozza di forma troncoconica rovesciata, realizzata in doghe, con taglio obliquo lungo la bocca del recipiente, tenute assieme da tre cerchi. Si caratterizza con quattro “orecchie” ovvero due coppie di doghe sporgenti l’una di fronte all’altra che servono per incastrarvi l’asse per lavare; una coppia è bucata in modo da permettere il trasporto della tinozza mediante un bastone infilato nei fori. Inoltre, in basso, una delle doghe sporgenti presenta un foro per lo scarico dell’acqua, chiuso da uno zaffo.
Fare il bucato, a mano e senza acqua corrente, era una operazione lunga e faticosa. Va distinto il bucato settimanale, che andava posto in ammollo, insaponato e risciacquato, dal bucato ‘grosso’ (diciamo straordinario, meno frequente, e che comprendeva tutta la biancheria di casa) per il quale dopo l’ammollo e l'insaponatura si procedeva alla lisciviazione ovvero al lavaggio con il ranno, cui seguiva il risciacquo. il sapone era preparato in casa con le ossa del maiale e l'aggiunta di soda caustica. La liscivia, o ranno, era il detergente per lavare i panni e la si otteneva filtrando con acqua bollente la cenere raccolta in un telo opportunamente disposto sul mastello in cui era stato sistemato il bucato.
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